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In situazioni particolarmente gravi e delicate, tali da rendere praticamente impossibile la convivenza coniugale, la Chiesa ammette la separazione degli sposi e l’interruzione della coabitazione.

In tali casi è lecito ricorrere all’istituto della separazione canonica (can. 1151 et ss. c.j.c.).

Trattasi di un processo speciale, a dire il vero poco usato, considerato un estremo rimedio, creato dal Diritto Canonico medioevale che, di fronte al principio della indissolubilità del matrimonio, escogitò tale originale istituto, detto allora “divorzio” quoad toram, mensam et habitationem.

La separazione fa venir meno solo questo dovere, cioè la comunanza di letto, di mensa e di abitazione, che è un diritto-dovere reciproco dei coniugi, i quali ne sono scusati solo da una legittima causa.  Non comporta, però, lo scioglimento del vincolo. Infatti si dice “manente vinculo”.

Precisamente comporta la sospensione provvisoria (separazione temporanea) o la rottura definitiva della convivenza coniugale (separazione perpetua), del “convictus coniugalis”  che non fa parte dell’essenza del matrimonio, ma della sua integrità.

L’unica causa che può originare la separazione perpetua è l’adulterio, una gravissima violazione dell’obbligo di fedeltà coniugale.

Occorre, però, molta prudenza nella valutazione dei singoli casi specifici, nel senso che una simile colpa, commessa una sola volta in un momento di particolare debolezza, non può essere valutata alla stessa stregua di relazioni adulterine ricorrenti e abituali. All’adulterio sono equiparate alcune parafilie, cioè perversioni sessuali.

Il canone richiede una serie di condizioni affinché possa essere invocato il diritto a sciogliere la separazione:

1) che si tratti di vero adulterio, materiale e formale: materiale, ossia di congiunzione sessuale con una persona diversa dal coniuge; formale, ossia volontario, quindi non è adulterio una violazione subita a causa di costrizione o in stato di incoscienza; moralmente certo, cioè non bastano i dubbi, le supposizioni o le incertezze;

2) che l’adulterio non abbia avuto luogo con l’approvazione o il consenso, espresso o tacito, esplicito o implicito, della comparte o, peggio, con la sua diretta istigazione a fine di lucro o per raggiungere un particolare scopo;

3) che la comparte non vi abbia dato causa diretta con la sua condotta;

4) che la medesima non si sia macchiata di identica colpa;

5) che il coniuge innocente non abbia perdonato espressamente o tacitamente, se, dopo esserne venuto a conoscenza, si comporta con “affetto maritale”. Nel foro esterno il perdono si presume se egli abbia conservato per sei mesi la convivenza coniugale senza far ricorso all’autorità ecclesiastica o civile.  Trascorsi sei mesi tocca al coniuge innocente provare di non aver dato il suo perdono. Se, poi, il coniuge innocente abbia sciolto spontaneamente la convivenza coniugale, per sé deve deferire sempre entro sei mesi la causa di separazione all’autorità ecclesiastica.

La separazione temporanea è prevista, invece, per i suddetti motivi:

1)      Se uno dei coniugi costituisce un grave pericolo, spirituale o corporale, per l’altro coniuge o per i figli (minacce serie, maltrattamenti, altre manifestazioni di crudeltà);

2)      Se, in altro modo, rende troppo dura la vita  comune.

In quest’ultima previsione rientrano casi più svariati, quale ad esempio, l’abbandono ingiustificato della convivenza coniugale, perché tale abbandono  è causa di gravi conseguenze per il coniuge abbandonato e per la prole. Così anche una malattia cronica incurabile quando costituisca un grave pericolo per il partner o per i figli, es. una malattia gravemente contagiosa oppure una demenza furiosa. Tuttavia, in tal caso, pur ammessa la legittimità della separazione, al coniuge infermo che senza sua colpa versa in uno stato di grave bisogno, non deve mancare la debita solidarietà e assistenza: per dovere coniugale e per carità cristiana.

Per chiedere la separazione temporanea, occorre che la situazione del grave pericolo o dell’intollerabilità della vita comune perduri in atto, poiché, qualora cessi, viene anche meno il diritto alla separazione. Infatti, il Codice prevede che cessando la causa della separazione, si deve ristabilire la convivenza coniugale, tranne che l’autorità ecclesiastica disponga diversamente. Se vi è pericolo nell’attesa, è prevista anche la separazione della parte con decisione propria. Ovviamente, nel diritto canonico non esiste la separazione consensuale per accordo privato.

La procedura è molto semplice. La parte interessata presenta una istanza al Vescovo della diocesi in cui i coniugi hanno dimora o residenza.

La domanda va presentata entro sei mesi dal tradimento o da quando uno dei due è andato via di casa. 

Il coniuge chiede di essere autorizzato a vivere separato, permanendo il vincolo, e di solito, contestualmente, chiede anche di essere autorizzato ad adire l’autorità civile per la risoluzione di tutte le pendenze di natura patrimoniale e le questioni relative all’affidamento dei figli.

Il Vescovo diocesano ha molta libertà nell’eseguire “per se” o “per alium” l’istruttoria, nel decidere la via giudiziaria o amministrativa. La via più veloce è naturalmente quella amministrativa. Anche in tale caso, occorre procedere all’istruttoria della causa, raccogliendo le prove necessarie per accertare la verità dei fatti. Così, il Vicario Giudiziale del Tribunale diocesano ascolterà le parti, esaminerà  documenti, eseguirà l’escussione dei testi, compresi i figli se sono in grado di testimoniare. Alla fine, il promotore di giustizia - che deve sempre essere ascoltato pena la nullità degli atti perché si tratta di cause di interesse pubblico, oltre che privato - darà il suo parere. Seguirà, quindi, se favorevole, il decreto di separazione del Vescovo, formulato per iscritto, contente i motivi in iure et in facto su cui si fonda.

Il termine massimo è di tre mesi dalla ricezione dell’’istanza. Trascorso tale termine, se il decreto non è stato ancora emesso, la risposta si presume negativa. Contro il decreto del Vescovo si può presentare ricorso a norma dei cann. 1732-1739 c.j.c., che regolano i ricorsi contro gli atti amministrativi in genere.  Quindi, prima si esperisce il ricorso preventivo, detto “in opposizione”, cioè una istanza rivolta allo stesso Vescovo per ottenere la revisione o la modifica entro dieci giorni dalla notifica del decreto. In caso di mancata revoca o modifica, segue il ricorso gerarchico, presentato direttamente al Superiore gerarchico, cioè la Congregazione dei Sacramenti, oppure allo stesso Vescovo, che ha l’obbligo di trasmetterlo statim, senza indugio, a tale Dicastero pontificio. Contro un’eventuale decisione negativa della Congregazione dei Sacramenti, è possibile un ulteriore ricorso al Tribunale della Segnatura Apostolica.

 Se viene stabilita la via giudiziaria, si seguirà il processo contenzioso orale, salvo che una delle parti o il promotore di giustizia richiedano il processo contenzioso ordinario. Di solito è sufficiente un’unica udienza, salvo necessità di una ulteriore, nella quale avviene la raccolta prove, la discussione della causa, la decisione. Le parti possono assistere all’interrogatorio della comparte e dei testi ma è una disposizione discutibile ed, infatti, sarebbe opportuno un decreto che glielo impedisca, come succede nelle cause di nullità matrimoniale.

Lo ius agendi spetta anche al promotore di giustizia o ai figli?

Nel caso di separazione definitiva no, perché il coniuge innocente può anche decidere di perdonare il coniuge colpevole. Nel caso di separazione temporanea si, qualora si configuri come un “dovere” a causa del grave pericolo che deriva dalla convivenza alla fede e alla morale dei membri della famiglia o all’educazione dei figli.

Effettuata la separazione, rimane fermo il dovere fondamentale di entrambi i genitori del sostentamento e dell’educazione della prole. Alcuni avrebbero voluto che si parlasse anche di sostentamento del coniuge innocente, ma si è preferito di no perché una tale statuizione è di competenza del diritto civile.